di Stefano Abbadessa Mercanti
Eduardo Chillida è considerato uno dei più grandi scultori del novecento. Le sue opere sono sparse per il mondo, ma in un angolo della Spagna, nei paesi baschi -vicino a San Sebastian, sua città natale- c’e’ un museo a lui dedicato che raccoglie molte delle sue creazioni, in un’esposizione a cielo aperto, su un terreno di sua proprietà, che ha coronato un desiderio dell’artista.
La mia visita, come architetto, è orientata a conoscere questo parco-museo e ad analizzare dal punto di vista paesaggistico l’integrazione tra le sculture, intese come materializzazione della personalità di Chillida, con l’ambiente. Quindi non è mia intenzione esprimere alcun giudizio sull’opera dell’artista. Prima di tutto vorrei illustrare la personalità dell’uomo e, credo, che queste sue frasi possano riassumere i concetti essenziali dell’intera sua vita d’artista:
“Sono uno di quelli che ritengono, per me è molto importante, che noi esseri umani apparteniamo sempre a qualche luogo. L’ideale e’ essere ed avere le radici in un luogo ma, contemporaneamente, penso che le nostre braccia devono stringere il mondo intero e che qualsiasi cultura é perfetta per colui che riesce ad adattarcisi. Io nel mio paese basco mi sento al mio posto, come un albero adeguato al suo territorio. Un albero sul suo terreno ma con le braccia rivolte al mondo intero. Tento di realizzare l’opera di un uomo, la mia. Poiché sono io, quest’opera avrà sfumature particolari, una luce nera, che però è anche la nostra.”
Negli ultimi anni della sua vita aveva il grande desiderio di realizzare quella che sarebbe dovuta essere la sua massima opera lasciata all’umanità. Voleva creare all’interno di una montagna, sull’isola di Fuerteventura, un grande spazio dove tutti gli uomini di qualsiasi nazionalità, razza e credo, si sarebbero sentiti uguali di fronte all’immensità dello spazio. L’artista che ha modellato l’argilla, il ferro, l’alabastro, il cemento, la carta e molte pietre desiderava, per ultimo, modellare lo “spazio” dove far vivere in uguaglianza l’umanità. Un desiderio che è contemporaneamente immersione totale nell’espressività dell’uomo e visione politica dell’esistenza.
Un desiderio naufragato tra le polemiche, le paure e le incertezze di una società che spesso dimostra di non essere adeguata alle grandi idee. Chillida, simbolicamente, voleva dare un suo contributo all’unione spirituale dei popoli. Ognuno con la propria cultura e il proprio carattere ma, anche, con la volontà di amare le diversità degli altri. Un altro sogno, questa volta pero’ realizzato, era quello di creare uno spazio dove esporre in maniera permanente le sue opere. Così nel 1984 Eduardo Chillida e sua moglie Pilar Belzunce comprarono a 10 chilometri da San Sebastian (Spagna), ad Hernani, la fattoria Zabalaga, risalente al 1543. Nasce così il Museo Chillida Leku, un parco dove oggi ci sono faggi, querce e magnolie e che accoglie circa 40 sculture, collocate in modo da essere toccate e vissute come in un luogo pubblico. Insieme all’architetto Joaquìn Montero, l’artista ha restaurato l’edificio in rovina della vecchia azienda agricola per realizzarci un luogo dove tenere le opere durante la fase di ossidazione del materiale: oggi, quest’edificio, contiene le opere piu’ piccole ed è un’affascinante ambiente fatto di vecchie mura, belle strutture lignee a vista e un’unitaria visione dello spazio. Il parco espone le opere in modo esaustivo dal punto di vista museale ma, secondo me, non riesce a prendere forza come luogo di fusione tra arte e natura. Le sculture disseminate sul prato, intense ed evocative, le ho percepite come oggetti isolati. Trovo che il luogo non riesca ad essere altrettanto intenso come le opere che espone. Il senso dell’infinito qui si materializza, perde il significato simbolico che, invece, alcune sue opere riescono a mantenere in altre collocazioni. Una scultura che guarda l’oceano, diventa essa stessa elemento di un paesaggio che l’occhio umano non riesce a delimitare. E la visione dell’uomo e dell’artista trova, in ciò, la sua massima espressione. Invece questo luogo, che dovrebbe rappresentare metaforicamente l’universo dell’uomo Chillida e quindi il suo desiderio di dialogo con l’immensità dello spazio, rimane delimitato da materiali recinzioni che si contrappongono alla poetica stessa dell’autore e le piantumazioni si percepiscono come presenze casuali. Gli elementi principali del museo sono le sculture che l’artista ha voluto come assolute protagoniste; scelta comprensibile ma, credo, che il luogo espositivo all’aperto avrebbe dovuto rispecchiare di più la poetica espressività dell’artista. Come lui stesso afferma, ogni uomo appartiene ad un luogo e la sua visione del mondo dipende dalle proprie radici.
Da questo parco, io visitatore, non riesco a percepire la volontà dell’artista di aprirsi al mondo. Comunque, é un interessante esempio di museo all’aperto e più che altro è il più esaustivo modo di “incontrare” la ricchezza poetica e la complessività espressiva di uno dei grandi scultori del ‘900.