di Diego Angeloni
Nella periferia di Roma appena dentro il Raccordo Anulare, si adagia su di una collina un monoblocco orizzontale grigio, in cemento armato, una linea retta ininterrotta per circa un chilometro dove vivono circa novemila persone. Una sola grande palazzina a sviluppo orizzontale che lo sguardo quasi non riesce a contenere. Se da lontano a prevalere è un unico parallelepipedo che definisce una sorta di barriera, da vicino il lungo edificio si spezzetta in tante singole fasce costituite dalle finestre e dai nastri in cemento dei sottofinestra che creano un motivo semplice e ripetitivo, mentre le linee di fuga che si producono viaggiano indisturbate all’infinito fino a dissolversi diventando immateriali. Se ci si volta dalla parte opposta, si osserva la stessa cosa, le stesse rigide direttrici che si dirigono verso un punto lontano. La monotona orizzontalità è spezzata dall’intervento dell’artista Nicola Carrino che caratterizza i pannelli prefabbricati dei sottofinestra con dei tagli diagonali che però anch’essi, pensati come una trama che si ripete regolarmente, non spezzano l’uniformità dei prospetti, ma anzi la rafforzano. L’area sulla quale sorge Corviale era una zona destinata dalla Legge 167 all’edilizia economica e popolare che venne edificata affidando la pianificazione ad un gruppo di 23 progettisti coordinati dall’architetto Mario Fiorentino. I lavori iniziarono il 12 Maggio del 1975 e le prime case vennero consegnate nell’Ottobre del 1982. L’idea di Corviale si concretizzò prendendo spunto dalle teorie socio-architettoniche di Le Corbusier nel tentativo di porre un freno all’espansione a macchia d’olio della periferia romana e tentare di razionalizzare l’edificazione incontrollata di quegli anni, nonché per sperimentare una via alternativa al vivere lontano dal centro cittadino. Questa visione, rivoluzionaria nella teoria, si è poi rivelata completamente fallimentare nella realtà. Basti pensare all’Unitè d’Habitation di Marsiglia, certamente più controllata dimensionalmente e conclusa dal punto di vista progettuale, ma, pur sempre lontana dall’idea per cui era nata. E’ oggi un edificio-museo che testimonia le idee di quel periodo ma che non offre alloggio a persone bisognose. La matrice progettuale di Corviale prevedeva due edifici paralleli che si sviluppavano per 980 metri di lunghezza e 9 piani di altezza, più due piani di cantine e un seminterrato per i garage. I due palazzi, divisi in cinque lotti e contenenti 1202 appartamenti, erano collegati all’interno da ballatoi, cortili e spazi comuni. A questa lunga barriera si affiancava, per tutta la lunghezza dell’edificio un’altra fila di abitazioni a due o tre piani, che dovevano accogliere famiglie di anziani e persone disabili. Ma l’aspetto più significativo del progetto era l’ampia dotazione di servizi e di spazi comuni: quattro teatri all’aperto rivolti verso il parco circostante, uffici circoscrizionali, una biblioteca, le scuole, servizi sanitari, un mercato, una sala riunioni con una capienza di cinquecento posti, una sala condominiale per le attività comuni in ognuno dei cinque lotti e il quarto piano era completamente destinato ad attività artigianali e negozi. Questo dunque l’innovativo progetto, che avrebbe offerto una via alternativa al vivere in città. Tale progetto, però, non venne completato nella sua interezza e quando si assegnarono le prime abitazioni, i servizi e gli spazi comuni non erano ancora stati realizzati. E’ stata proprio questa la causa di tutti i problemi che si sono addensati nel tempo attorno al comprensorio di Corviale, non tanto, dunque, le dimensioni dell’edificio quanto piuttosto una cattiva gestione. Sull’onda, infatti, dell’assegnazione delle prime case a progetto non completamente realizzato, molte persone bisognose di una casa occuparono alcune abitazioni. E a causa della lentezza delle istituzioni, il quarto piano, che doveva ospitare negozi ma che rimase per anni inutilizzato, venne “edificato” abusivamente ricavando appartamenti là dove erano previsti servizi per la collettività. Negli anni Corviale è così diventato il simbolo del degrado delle periferie romane tanto che, non solo architetti italiani, ma anche esperti di urbanistica americani e cinesi, hanno avanzato proposte per migliorare le condizioni di vita all’interno degli ottocentomila metri cubi di cemento. Quando si arriva al quarto piano, quello originariamente destinato a servizi, si piomba in un posto surreale, dove l’abusivismo si manifesta nella sua veste più cruda; le abitazioni sono arretrate rispetto al filo esterno dell’edificio e le finestre delle abitazioni filtrano la luce attraverso le griglie metalliche a tutta altezza che delimitano il piano rispetto all’esterno; i foratini delle pareti sono lasciati a vista; cancellate in ferro delimitano lo spazio davanti casa; spranghe alle porte rendono diffidente chiunque passi lì davanti. Qui la sensazione di estraneità si raddoppia, un edificio lunghissimo, lineare, pensato per dare ordine alla periferia, che stringe nel mezzo, inglobato, un altro quartiere completamente abusivo che segue le “regole” stilistiche dell’abusivismo. Se da un lato dunque la cattiva gestione dell’immobile ha causato problemi, dall’altro, sono innegabili diversi errori del progetto, come per esempio i luoghi di sosta, ricavati in prossimità dei corpi scale, bui, senza sbocchi di luce né affacci verso l’esterno, caratterizzati da fredde sedute in cemento, difficilmente utilizzabili dai condomini; oppure tutta una serie di spazi non pensati e quindi anch’essi inutilizzati. In generale, tutti i luoghi di sosta pensati all’interno dell’edificio sono contraddistinti da squadrate panchine in cemento situate in posti improbabili e tutt’altro che distensivi. Sono stati invece i residenti a crearsi i propri spazi in alternativa a quelli previsti. I lunghi corridoi e ballatoi interni alle due stecche, dove si affacciano i portoni delle abitazioni, hanno subito modifiche e personalizzazioni. Sugli scarni parapetti dei ballatoi, spessi appena dieci centimetri e alti oltre lo standard, sono stati collocati vasi di fiori di ogni dimensione, dando una sensazione di instabilità che si unisce alla claustrofobia che si prova nel vedere le piante più alte compresse nello spazio tra pavimento e soffitto. D’altronde affacciandosi ai parapetti ciò che si vede è l’immagine di un “imbuto” di cemento grigio alto nove piani che termina in alto con uno spiraglio di cielo e in basso con uno strato d’immondizia; è dunque comprensibile che si sia voluta creare, pur nel poco spazio a disposizione, una barriera verde di protezione. Alcuni tratti dei ballatoi, poi, sono stati addirittura recintati e privatizzati: chi ha messo delle grate in ferro, chi staccionate in legno, chi ancora ha chiuso completamente lo spazio antistante casa con verande in alluminio e vetro. Altri, semplicemente, lasciano sedie e poltroncine sul pianerottolo così da estendere i confini della loro casa oltre la porta d’ingresso. In un contesto indifferenziato e anonimo come è quello che caratterizza gli otto chilometri di corridoi di Corviale, questa appropriazione dell’intorno, anche se sviluppa immagini contrastanti, simbolo delle varie diversità che lo abitano, è fondamentale per affermare la propria identità ma anche, in una visione più pratica, per facilitare la manutenzione o anche solo per riconoscere il proprio portone di casa. Ognuno pulisce il proprio pianerottolo o l’area che è riuscito a conquistarsi. Non si tratta, però, di un’appropriazione volta a sottrarre spazio agli altri inquilini, perché la solidarietà tra le persone è molto sviluppata, piuttosto, sottolinea l’impegno di ognuno a migliorare il luogo in cui si vive e cercare di lottare contro lo scoraggiamento e il degrado.