Roma città delle torri

di Giammaria Maffi

“Si deve ammirare con straordinario entusiasmo il panorama di tutta la città, in cui sono così numerose le torri da sembrare spighe di grano” (Mastro Gregorio – XII secolo).
Così appariva allo sguardo di un erudito cronista inglese la Roma del Medio Evo, difficilmente comparabile con l’attuale scenario urbano, dove, però, un viaggiatore contemporaneo, attento agli incontri con quanto lo circonda, ancora può rintracciare, nel territorio posto ai margini della città, degli edifici svettanti su esile pianta: sono le torri della Campagna Romana, sacelli di storia millenaria, vedette di un passato oscuro e lacunoso, spettatrici inerti della storia di Roma.
È curioso notare come l’etimologia della parola “torre” ci riguardi così da vicino: collegabile forse con il greco turris o tursis, questo termine fu probabilmente importato dall’Asia minore per opera degli Etruschi, chiamati dai greci Turrenoi e Tursenoi, in latino Tyrrheni. Quasi a voler indicare che il destino di una città quasi adagiata lungo il mar Tirreno non potesse essere che quello di diventare così turrita!
Nel Medioevo, infatti, a Roma si arrivò a contare fino a trecento torri che, insieme ai campanili delle chiese e alle fortificazioni delle Mura Aureliane, conferirono alla città un aspetto verticalizzato, appunto turrito. Era l’epoca di massima diffusione di tale tipologia presso le famiglie gentilizie, poiché aveva grande importanza nel sistema difensivo medievale: è proprio in quest’epoca che si sviluppa il modello della cosiddetta “casa-torre” – in pratica una torre con funzioni abitative – al tempo stesso segno di prestigio e potere nella città e baluardo di difesa contro le opposte famiglie nobiliari. Non di rado la vittoria, o la caduta, di una di queste portava come conseguenza l’erigersi o la demolizione delle rispettive torri gentilizie. Era per Roma un periodo di grande insicurezza ed instabilità: tutta ritirata verso il fiume Tevere, in mancanza dell’approvvigionamento idrico garantitogli dalla rete degli acquedotti che per secoli l’aveva alimentata, aveva lasciato gran parte dei suoi territori suburbani in balia di tali famiglie nobiliari in continua guerra fra loro, cosa che impedì un reale sviluppo e progresso civico.
Rispondente ad esigenze pratiche, semplicità d’impianto della struttura, sfruttamento in altezza del lotto di fabbricazione, la torre è divenuta così una tipologia diffusa e ripetuta; spesso eretta su fondazioni di architetture preesistenti, finisce per diventare l’emblema di una casata nobiliare.
Solo dal sec. XV in poi, con l’avvento della polvere da sparo e l’affermarsi del modello di palazzo rinascimentale, le torri andarono scomparendo. Di queste, oggi, ne sono sopravvissute una cinquantina: alcune piuttosto famose perché isolate e ben visibili, la maggior parte, ai più sconosciute, poiché inglobate in edifici posteriori o mimetizzate tra le costruzioni che ad esse si sono addossate.
Eppure fin dall’antichità questo tipologia, a pianta quadrata, rettangolare o circolare è sempre stata utilizzata, con sviluppo verticale più o meno accentuato, come edificio isolato o parte di complessi organismi edilizi: oltre a quelle lignee erette durante gli assedi, nell’architettura classica troviamo torri nelle cinte di mura, con o senza merlatura, spesso associate ai bastioni come nelle costruzioni etrusche, e durante l’Impero torri in muratura isolate – sia per difesa, che per segnalazioni – lungo le coste, le grandi strade ed il sistema confinario. Le torri nelle mura romane sono un esempio autorevole d’apparato difensivo: la cinta muraria voluta sotto il suo regno (270–275 d.C.) dall’imperatore Aureliano ne comprendeva ben 383, poste a regolare distanza per arginare i primi assalti delle popolazioni barbariche.
Torri e pozzi si dispongono nel territorio della Campagna Romana per individuare insediamenti colonici nei vari periodi di bonifica e coltivazione del territorio. Arroccate su alture strategiche o lungo i principali percorsi viari, sono divenute in seguito i nuclei di costruzioni più articolate, quali torri di guardia lungo l’antemurale di recinzione delle domus cultae, o masti per i castelli feudali.
Ancora adesso, percorrendo certi tracciati secondari del tessuto cittadino romano, si può cogliere il fascino ed il richiamo di queste strutture, ancorché in rovina, ancorate a qualche altura o miracolosamente rimaste isolate nel territorio.
Simbolicamente la torre ha da sempre rappresentato il desiderio di comunicazione dell’uomo con l’ignoto e, al tempo stesso, la sua ansia di controllo e sicurezza nei confronti di quanto è sconosciuto o nemico. Spesso in contrasto con il territorio piatto e anonimo, oppure in opposizione alla tipologia e all’immagine della cisterna (con cui talvolta condivideva lo stesso spazio d’edificazione) proiettata invece verso il basso, la torre diventava un fuoco accentratore nello spazio, simbolo di distinzione e, soprattutto, di riferimento per quell’idea che racchiude in sé di proiezione, d’ascesa verso l’Altrove, l’Aldilà e l’Eterno. Ciò che è in basso naturalmente tende verso l’alto e la torre fa spesso da congiunzione, tramite e confine; come nell’immagine biblica di Babele e del sogno dell’uomo di conoscere e distinguere il pensiero: così essa s’innalza per staccarsi, per e-levarsi dalla propria condizione ed aspirare ad una maggiore consapevolezza di sé e del mondo. Ecco allora che nel territorio assume a livello percettivo e – diremmo oggi – mediatico, il ruolo di catalizzatore, di convergenza e di unicum, oggetto di risalto contrapposto allo sfondo, al non-luogo dell’intorno, perché lasciato tutto uguale a se stesso. Questa sorta di segnale di riconoscimento assume il ruolo di ponte aereo che, nel suo farsi tipologia ripetuta, diventa una sorta di eco trasmessa nello spazio.
A rendere più articolato e complesso il suo significato, si associa all’immagine della torre quello della scala e del salire, come per attribuire all’oggetto architettonico, di per sé statico, l’idea di movimento e progressione. In antitesi ad esso, dicevamo, si pone l’immagine del pozzo, capovolgimento della figura iniziale che rimanda all’idea di ricerca, di scoperta, di scavo verso l’ignoto. Ecco che allora la forma archetipa della torre viene ad assumere in territorio medio-orientale piuttosto il ruolo di torre religiosa o astrologica, quale sorta di osservatorio del cielo, mentre nel mondo occidentale quello di torre d’avvistamento o faro, quindi un punto di esplorazione dell’orizzonte terracqueo.

LE TORRI E LA STORIA DI ROMA

Come si inserisce lo sviluppo della struttura a torre nelle vicende millenarie della storia di Roma?
Il territorio corrispondente oggi all’incirca con la provincia di Roma è sempre stato ritenuto ideale per costituire insediamenti antropici. Già in epoca preistorica questa regione, circondata da diversi gruppi collinari e da modesti rilievi montuosi, che delimitano aree pianeggianti fertili attraversate dai fiumi Tevere ed Aniene – grandi vie di comunicazione – e degradanti fino al mar Tirreno, ha ospitato le prime comunità stanziali dedite all’agricoltura e all’allevamento.
E’ una situazione geomorfologia, quella del territorio romano, in grado di favorire, al pari della vicina Etruria, forme d’insediamento, sviluppatesi in alcuni periodi con particolare attenzione alla difesa del territorio ed in altri ad un più razionale e specifico sfruttamento dello stesso.
Va considerato che nella maggior parte delle aree suburbane, fino al compimento dell’età repubblicana, data anche l’incertezza della condizione politica e militare, l’agro romano era poco popolato e coltivato, perlopiù luogo destinato a necropoli, utilizzate anche nelle epoche successive.
Le cose cambiarono quando Roma già alla fine del IV secolo a.C. diventò una delle maggiori potenze del Mediterraneo; la città fu cinta dagli undici chilometri delle mura Serviane, s’intervenne sulla viabilità nel territorio e si incominciò a costituire la rete idrica d’approvvigionamento. Nello stesso anno (312 a.C.) ebbero, infatti, inizio la costruzione della Via Appia, voluta dal censore Appio Claudio Crasso, ed i lavori d’edificazione del primo acquedotto romano che si attestava nella zona di Porta Maggiore, ad est di Roma. Progressivamente, la sistemazione della rete viaria e l’infittirsi del sistema degli acquedotti, oltre a testimoniare il completo controllo di Roma sul suburbio, portarono all’impianto nel territorio d’insediamenti rustici e di ville suburbane, appartenenti non solo all’aristocrazia locale ma anche a quella romana.
Parallelamente all’evolversi della storia di Roma, con l’avvento dell’Impero, si passò, quindi, da una fase d’insediamento di tipo militare per il controllo e la difesa del territorio, ad una di carattere più agricolo, a sviluppo e servizio della Capitale. E’ proprio in quest’epoca che, con il crescere della città in direzione radiale lungo le sue vie consolari, il disegno planimetrico di Roma mutò e, da ortogonale che era, si espanse trasversalmente fino a coinvolgere le aree suburbane riportandole alla loro destinazione naturale. Lo sviluppo di questo tessuto extra moenia portò all’infittirsi del reticolo di strade afferenti ai diversi tracciati consolari principali, spesso appositamente realizzate per il collegamento delle diverse ville rustiche di modeste dimensioni sparse nel territorio.
Esse erano insediamenti a carattere residenziale-agricolo, edificate per un razionale sfruttamento del territorio e costituite dalla struttura principale della residenza con accanto gli annessi rustici destinati ai lavoratori; solitamente avevano una cisterna per la raccolta dell’acqua ed in alcuni casi di una torre di belvedere. La coltivazione era destinata soprattutto a vigneti e frutteti, oltre a quei beni di facile deperimento che dovevano essere prodotti nelle vicinanze dei mercati di distribuzione, quali ad esempio i fiori. Per la miglior gestione dei terreni agricoli si costituirono i cosiddetti praedia, sorta di fondi agricoli o sub particelle agricole, entro cui era suddiviso il comparto territoriale facente capo alle ville suburbane centrali.
Nei primi secoli dell’Impero lo sviluppo urbanistico e la facilità di ottenere prodotti dai paesi fuori del Lazio se, da un lato, aveva spinto una urbanizzazione del territorio, costellandolo di ville lussuose perfettamente autosufficienti, dall’altro portò ad un certo abbandono dell’agricoltura.
I primi segnali di crisi dell’impero romano si ebbero nel III sec. d.C., a seguito delle prime invasioni barbariche, quando l’imperatore Aureliano si vide costretto a costruire una cinta muraria più grande intorno a Roma, poiché quella Serviana, dopo circa 7 secoli, risultava ormai inadatta, sia per il suo stato di conservazione che per l’espansione della città.
Roma fu così circondata da 19 chilometri di mura, contro gli 11 delle precedenti, stavolta rinforzate da 383 torri a pianta quadrata, poste alla distanza regolare di 100 piedi (circa 30 metri) con camera coperta all’altezza del cammino di ronda. Per entrare in città, che aveva un’estensione di 1.230 ettari, erano state predisposte 14 porte.
Il decadimento vero e proprio si ebbe con la cattiva amministrazione dell’impero, il trasferimento della capitale da Roma a Bisanzio, per poi peggiorare con le invasioni dapprima dei Vandali e dei Goti (VI sec. d.C.) e dopo dei Longobardi (VIII sec d.C.).
Durante la guerra gotica (553-554 d.C.) furono tagliati gli acquedotti, causando l’allagamento delle terre e la loro trasformazione in pestilenziali acquitrini che fecero fuggire i ricchi possidenti dalle ville e dalle grandi fattorie; ciò portò, da un lato, allo spopolamento della campagna e, dall’altro, alla rovina delle costruzioni, delle coltivazioni, degli allevamenti di bestiame e delle opere d’ingegneria idraulica.
Gregorio Magno nel 583 d.C. cosi si esprimeva: “…ovunque scorgiamo disperazione, le città sono distrutte, le campagne spopolate, la terra abbandonata”. 
Fino ad allora la Chiesa, troppo tesa a costituire il suo controllo sulla città ed a tessere rapporti con Bisanzio, era scarsamente intervenuta nei confronti del suburbio. Contemporaneamente, le discese di orde di barbari e l’avvento della malaria, dovuta alla mancanza di coltivazione e di bonifica dei territori, accentuarono l’abbandono delle campagne per trovare difesa nella città.
A tal proposito, da recenti indagini effettuate nell’area a sud-est del territorio romano compresa tra la Via Casilina e l’autostrada per Napoli, da parte dell’Università degli Studi di Tor Vergata, è emerso che, comunque, in età tardo antica ed alto medioevale, contrariamente a quanto supposto finora, è ragionevole ipotizzare il permanere di una forte densità abitativa sul territorio basata su piccole fattorie e dedita a numerose attività produttive, a testimonianza di un legame di servizio ancora presente con la città di Roma.
Nel decadimento d’ogni altra istituzione, la struttura ecclesiastica, che faceva capo al Vescovo di Roma, articolata attraverso le diocesi suburbicarie, rappresentò l’unico elemento di stabilità in un territorio in cui il Vescovo stesso, per il suo prestigio morale, impersonava la massima autorità e, al stesso tempo, era anche il maggiore proprietario terriero.
Su tali premesse potè iniziare quel lento processo di riconversione delle campagne, promosso da Papa Gregorio Magno (590-604) e sostenuto dai suoi successori. I conventi e le chiese di nuova fondazione diventarono spesso punti d’aggregazione di colonie agricole; queste istituzioni si formavano spontaneamente in luoghi dove la sopravvivenza di grandi resti di edifici antichi garantiva la possibilità di riparo e di riserve d’acqua.
Così, sin dai primi anni del VI secolo, la Campagna Romana, che come patrimonio Caesaris era stata sostanzialmente estranea alle vicende di Roma, divenuta patrimonio ecclesiastico, entrò a far parte integrante di quella forza vitale destinata a tracciare, sotto la guida del papato, il nuovo solco della storia di Roma. Venne reintrodotto l’uso delle coltivazioni ed incentivato il ripopolamento e la conservazione del territorio.
È l’emergere di una certa egemonia ecclesiale, grazie all’indebolirsi dell’autorità dell’impero d’oriente sui territori, che portò, dunque, ad organizzare la vita delle popolazioni attorno a Roma, sulle rovine di molti edifici. I fondi frazionati vennero progressivamente a finire sotto il controllo del potere ecclesiale, attraverso donazioni ed alienazioni: le prime costituivano una vera e propria offerta, mentre le seconde erano forme di acquisizione legale, da parte della Chiesa, di terreni gestiti da contadini che, per le condizioni di incertezza, erano costretti a cederle alle istituzioni religiose.
Iniziò la diffusione di quella forma d’affitto chiamata enfiteusi in base al quale il piccolo proprietario, esente da pesanti retribuzioni fiscali, poteva assolvere il compito di lavorazione e custodia dei terreni con la possibilità di presidiarli con luoghi atti alla difesa (torri e piccoli castelli) e con l’obbligo di corrispondere al Monastero dal quale riceveva l’enfiteusi una determinata quota.
Si vennero a costituire così i primi nuclei insediativi nell’Agro Romano, individuati dalla presenza di torri di segnalazione e di avvistamento, dette vigilae, che da un centro fortificato s’irradiavano sin sulla spiaggia. In seguito molte di queste torri però scomparvero, oppure vennero inglobate in nuove edificazioni, ma ad oggi sopravvivono, come nel caso di Tor Vergata, nel nome della località nella quale sorgevano, permettendo così di ricostruire l’antica rete delle proprietà, della viabilità e della difesa.
Grazie a questo sistema, il papato riuscì così a garantire sicurezza e benessere, tale da portare ad un aumento demografico nel Lazio dopo lunghi anni di abbandono.
Nel corso del VIII sec. la Chiesa, anche a seguito della presunta donazione dell’imperatore Costantino (risultata poi falsa), entrò in possesso dei grandi latifondi imperiali e subentrò definitivamente nella amministrazione della Campagna Romana; vennero rivalutati gli antichi centri agricoli e creati dei nuovi, divisi in istituti, che prendevano il nome da denominazioni catastali:
CASALE: tipo di domus culta più piccola.
CASTRUM: costruzione di difesa con la quale ha inizio il feudalesimo.
COLONIA: centro di lavoro creato sopra antiche ville.
CURTIS: fondo rustico recintato, privo di carattere militare;
DOMUS CULTA: tipo d’organizzazione agricola costituita da un insieme di fondi con abitazioni sparse, chiese, magazzini, ospizi da considerare come nuove istituzioni create dai pontefici.
FONDUS: piccola proprietà;
MASSA: aggregato di più fondi;
SALA: costruzione rustica per raduno di armenti.
Di questi centri agricoli il più interessante è la domus culta (letteralmente casa coltivata, ovvero luogo di coltivazione), istituzione a sfondo sociale e religioso creata nell’VIII sec. grazie all’importante opera di governo di due papi, Zaccaria (741-752) e Adriano I (772-795), i quali risollevarono le sorti della campagna che, dopo la caduta dell’Impero Romano, aveva subito un progressivo abbandono, ricostruendo la sua intelaiatura sconnessa e ridando sicurezza ai suoi abitanti. I due papi fondarono, così, un sistema di centri agricoli difesi da una milizia locale, distribuiti ad una distanza di circa 12-15 km dalla città, che costituirono una sorta di cintura protettiva intorno ad essa, corrispondente pressapoco all’attuale tracciato viario del Grande Raccordo Anulare, con le torri di difesa poco dentro o poco fuori di esso. Con tali istituzioni e con le diocesi suburbicarie i papi esercitarono un vero e proprio esercizio temporale, riuscendo al tempo stesso a diffondere il cristianesimo nelle campagne mediante persone devote alla Chiesa e a migliorare l’agricoltura.
Le domus cultae raggruppavano vari nuclei abitati – dotati di chiese, mulini, granai e ospizi – organizzati e gestiti da una casa d’amministrazione della produzione agricola, intorno a cui gravitava una rete di poderi contadini; pur restando alle dipendenze della Chiesa di Roma attraverso i suoi funzionari amministrativi, esse potevano battere moneta. Gli abitanti erano chiamati “familiares Sancti Petri” e costituivano occasionalmente l’esercito del Papa, che non ne aveva uno proprio nell’Urbe. La possibilità di avere una milizia ed un’autonomia economica (potendo coniare moneta), portò la domus culta ad istituire un sistema di difesa con posti di vedetta e di controllo del territorio. Così per estensione il termine turris venne ad indicare, in ambito agricolo, il titolo di un fondo, presente già come centro di un grande complesso di beni e servizi, oppure limitato, per frazionamenti successivi, a quanto era pertinente alla torre e, in origine, costituiva la giurisdizione medesima. Ecco che questo portò alla diffusione in toponomastica di tale appellativo per indicare le diverse zone suburbane di Roma, e tali denominazioni sopravvivono, ancora oggi, nei toponimi di circa 40 tra quartieri e località, oltre che nelle molte vie che attraversano i territori stessi.
Si ebbe, quindi, il sorgere delle prime torri di guardia, situate in un’altura circostante, erette per salvaguardare l’integrità dei possedimenti, pronte a segnalare tempestivamente un eventuale pericolo, in modo da permettere l’armamento della milizia dei vari centri agricoli. A quell’epoca le minacce principali erano solo in parte le azioni di brigantaggio verso la comunità; maggiore preoccupazione si aveva nei confronti delle azioni di pirateria da parte saracena.
Per limitarne il fattore sorpresa, in mancanza d’altri luoghi fortificati, fu creato un cordone litoraneo di difesa, composto da varie torrette semaforiche che, in caso di pericolo, davano il segnale d’allarme, il quale a sua volta era ricevuto da altre torri interne, raggiungendo infine la campagna. Tale sistema verrà in seguito perfezionato durante le guerre baronali. All’età carolingia risale, ad esempio, la Torre delle Vigne, oggi nota come Tor Marancia, una struttura in tufo su pianta quadrata di lato pari a 6 metri ed alta circa 15 metri, posta in prossimità dell’omonimo viale, probabilmente edificata a controllo delle vie di comunicazione con Ardea, per prevenire appunto le scorrerie dei pirati saraceni. In tal modo nella Campagna Romana si svilupparono tra l’VIII e il X secolo due tipi principali di torri: quelle semaforiche e quelle giurisdizionali. Le prime avevano funzioni d’avvistamento e di segnalazione ottica e, una volta diminuito il pericolo saraceno, furono trasformate in torri di vedetta nell’ambito del sistema difensivo delle prime roccaforti baronali; le seconde si posero a segnare i confini di una diocesi, di un feudo, di un monastero o abbazia, diventando in seguito vere e proprie torri campanarie. Vennero a costituirsi come opere senza particolari elementi di difesa, allineate lungo le vie consolari o situate in loro prossimità, sui percorsi d’attraversamento radiale del suburbio; la loro altezza era motivata dalla possibilità che fossero il più possibile visibili.
Come dicevamo, è spesso la tradizione toponomastica a conservare la memoria di queste torri che, seppur rimaste in piedi, furono in età feudale inglobate nei casali o nei castelli e convertite in strutture di vedetta e di difesa, cui venne anteposta una struttura antemurale: si spiega così la definizione per alcune di “torre del vescovo” ad indicare la sua precedente funzione giurisdizionale, a segnare l’ormai passato confine di una diocesi, anche se poi l’edificio è divenuto luogo fortificato.
Ad eccezione di quelle create direttamente lungo la costa, la particolare disposizione delle torri semaforiche e giurisdizionali già evidenzia il fenomeno di sovrapposizione delle strutture con quelle preesistenti lasciate dall’impero romano: sfruttando i basamenti di quelle erette in epoca romana o, più frequentemente, servendosi delle costruzioni monumentali che non avevano nulla a che fare con le fortificazioni – distruggendo in tal modo innumerevoli documenti del passato – la loro distribuzione assume un orientamento costante che va dalla costa verso l’entroterra, servendosi come riferimento delle principali direttrici romane oppure arroccandosi sui picchi o alture.
D‘altronde per le domus cultae l’ubicazione era stata la stessa scelta in precedenza per ville e piccoli villaggi, ovvero in zone intermedie fra due o più vie di comunicazione. La stessa favorevole posizione fu poi scelta per la costituzione di castelli e torri gentilizie, come nel caso di Tor Maggiore lungo la Via Ardeatina, la più imponente torre della Campagna Romana, con i suoi 34 metri d’altezza che insistono su una base di 7 metri di lato, costruita presumibilmente intorno al XII sec. sui resti della domus culta di S. Edistus , con struttura a tufelli regolari e solai in legno.
Fra il X e XI secolo si ebbe una sostanziale riorganizzazione delle proprietà suburbane di Roma ed in particolare dei latifondi dell’agro romano, entrati ormai in possesso di clero, basiliche, ordini religiosi e pochi signori. Nel frattempo le guerre civili e la lotta per le investiture avevano provocato la decadenza delle domus cultae, che già nel X secolo si erano ridotte ormai a curtes, in altre parole a fondi rustici recintati.
In questi periodi il papato riacquistò in Europa un rilievo preminente e, conseguentemente, le abbazie procedettero alla ricomposizione delle proprietà ed alla riconcentrazione delle popolazioni rurali in abitati fortificati, posti in luoghi elevati dominanti la campagna: i cosiddetti “incastellamenti”. Tale riorganizzazione permise ai privati di avere una garanzia di difesa della proprietà, ma consentì anche di migliorare lo stato dei possedimenti e, perciò, di richiamare gli uomini ad occupare ed a lavorare gli spazi lasciati in abbandono per tanti anni, ricostituendo così quel tessuto sociale ed economico che si era perduto.
Si ebbero quindi in questo periodo una serie di cessioni dei terreni dalla chiesa a privati e alle famiglie nobili più importanti quali i Conti del Tuscolo, i Colonna, i Savelli, gli Annibaldi, i Della Rovere. Queste famiglie, spesso imparentate con il clero, ricevevano i fondi mediante l’istituto dell’enfiteusi; pertanto corrispondevano un canone annuo alla chiesa e s’impegnavano ad effettuare lavori di miglioramento e conservazione del terreni medesimi. Nello stesso periodo il papato istituì i cives romani ed i sodalizi (associazioni religiose di carattere gentilizio) per controllare il territorio e ripristinare l’agricoltura: a quell’epoca, infatti, in seguito all’aumento del valore del bestiame, solo chi aveva molti capi oltre la terra era ritenuto un vero possidente. Per la Chiesa il castrum, vantaggioso all’inizio a fini organizzativi e difensivi, divenne in breve la premessa di un passaggio di poteri nelle mani dei vari signorotti; tale organizzazione, infatti, ben presto degenerò, poiché da un lato le famiglie nobili attraverso il pagamento di tributi tentarono di dominare Roma e dall’altro i cittadini romani cercarono di ristabilire l’antica repubblica.
Così dal secolo X le grandi famiglie nobili romane ricostituirono i latifondi, generando la sistematica fortificazione della Campagna Romana, in seguito alla quale molte torri d’avvistamento vennero contornate da un recinto quadrangolare e munite di un antemurale, altre furono erette lungo le vie consolari, e, contemporaneamente, si attrezzarono i casali, le Chiese, i ponti e si costruirono i primi castelli. A questa sistemazione si provvide utilizzando il selciato delle strade ridotto a scaglie irregolari, miste a tufelli e a resti di marmo ricavati da statue e monumenti romani; nelle costruzioni con volte, oppure in quelle molto alte, si utilizzò invece un materiale più leggero, quale il tufo.
Parallelamente si sviluppò la tipologia del casale rurale medievale, che insisteva su un fondo (o gruppo di fondi) ed in cui era presente un certo numero di case per i contadini, solitamente non più di cinque. L’impianto derivava da quello della domus culta e, per ragioni difensive, vi si entrava da un unico accesso aperto sul muro di cinta, che portava ad un piazzale interno in cui spesso era presente, anch’essa a scopo difensivo, una torre. Quest’ultima divenne così l’elemento distintivo del casale romano, e la sua immagine, articolata in vari modi, è giunta fino a noi: la scorgiamo al centro nel casale di Marco Simone, si trova decentrata a Pratolungo, è aggettante a Lunghezza. Spesso ce ne sono più di una, con diversa altezza e casaletti addossati, come nel complesso della Vaccareccia nella valle della Caffarella… Esempio molto bello di tale periodo è il casale della Tenuta della Cecchignola, costituito sulle fondamenta di una lussuosa villa d’età romana, poi convertito in residenza nobile di campagna, situato a destra di Via della Cecchignola. L’omonima torre, risalente al XII secolo, venne costruita in scaglie di tufo e selce e presentava un recinto merlato, ancora parzialmente conservato nella parte posteriore del complesso.
Ecco allora comparire i primi castelli: è proprio in questa cornice di torri e fortilizi che nel XII e XIII secolo inizia il feudalesimo baronale, che condizionò enormemente la storia della Campagna Romana.
Questi organismi architettonici sfruttavano la posizione arroccata di alcune cittadelle abbandonate, addossandosi sui loro resti murari. Il classico schema del castrum del secolo XI comprendeva la cinta, il mastio o torre principale del castello, il palazzo baronale e la chiesa. Ai piedi del feudo veniva poi a costituirsi il borgo contadino. Esempio apprezzabile dell’epoca è la fortificazione realizzata inglobando i resti della tomba di Cecilia Metella, sulla Via Appia. Contestualmente s’iniziarono a fortificare anche i tracciati viari che conducevano alle baronie; l’operazione portò ad un sostanziale svuotamento delle strade, dovuto sia ai forti pedaggi, sia all’aumento delle milizie di guarnigione.
In un tale sistema la funzione delle torri assunse connotati esclusivamente di tipo difensivo: inserite agli angoli del castello, aggettanti o meno, oppure fiancheggianti le porte e i ponti della città, la loro costruzione rimase perlopiù a pianta quadrata e di dimensioni ristrette, mentre l’interno fu diviso in piani con pavimenti e scale di legno, talvolta collegati a sotterranei predisposti per la raccolta di provviste in caso d’assedio. Frequentemente si presentavano con un antemurale: il recinto era limitato al perimetro dell’altura su cui erano erette e solo in alcuni casi veniva rinforzato con torrette di guardia. Lungo le cortine murarie si aprivano le feritoie molto strette ed alcune impalcature lignee che costituivano i passaggi di ronda.
Al tempo stesso la torre medievale, già presente nella Campagna Romana come elemento isolato d’osservazione e difesa avanzata oppure inserito nelle mura, divenuto elemento comune alle fortificazioni e ai castelli, subì una metamorfosi da mero strumento militare e difensivo a simbolo di dominazione sul fondo, quest’ultimo sfruttato da un punto di vista produttivo.
“L’accendersi delle lotte baronali, tipiche del periodo feudale, spiega questa simbiosi tra aspetto militare difensivo e aspetto economico-produttivo. Tali conflitti trovano origine nei soprusi che alcuni enfiteuti commettevano trasformando i castelli e le torri da strutture di difesa e simboli giurisdizionali in strutture militari dove porre la base del proprio dominio dispotico; il feudalesimo condizionerà a tal punto la storia della campagna romana da creare veri e propri stati che facevano perno sul castello baronale circondato da una rete di vedette poste a controllo dell’antico, ma ancora efficace, reticolo viario romano. La debolezza del Papato, addirittura fisicamente assente nel periodo avignonese, favorì questo processo.” (F. Piemontesi, P. Virgili)
In questo senso l’uso della tipologia a torre, come dicevamo all’inizio, trovò un notevole incremento e sviluppo in età comunale e, contemporaneamente, da costruzione esplicitamente militare passò ad essere un segno di rappresentanza nobiliare. L’edificazione di vere e proprie case-torri, secondo i caratteri tipici dell’epoca, si diffuse all’interno del nucleo abitato, al punto tale da far ritenere allo storico del Medioevo Gregorovius che a Roma, nel XII secolo, ce ne fossero almeno 900! Al di là dell’esagerazione è da ritenere che la città fosse punteggiata da tali costruzioni, segni emblematici delle dimore baronali, e al tempo stesso vessilli di quella lotta che dopo l’anno Mille investì le opposte fazioni dei guelfi (fedeli al pontefice), le cui architetture erano contraddistinte dai merli a profilo superiore rettilineo, ed i ghibellini (sostenitori dell’imperatore), con i loro tipici merli a coda di rondine. Le lotte fra queste fazioni o quelle del Papa e il Senato contro i baroni – con conseguente confisca e distruzione di case, torri e palazzi della parte soccombente – furono, insieme a fenomeni naturali, come il terremoto del 1348, tra le cause prime della notevole perdita di tali monumenti storici.
L’evoluzione che dal secolo XII investì le fortificazioni portò la tipologia ad assumere i caratteri medievali propri della costruzione a cortina, con il coronamento a merli, l’inserimento di opere difensive, oppure con la presenza di torrette di guardia lungo il muro di recinzione, mentre le basi talvolta erano a scarpata; od ancora con l’utilizzo della muratura a tufelli, simile all’opus listatum, ma diversa per minor dimensione dei conci ed il maggior uso di malta. Questa tecnica costruttiva, data la natura tufacea della Campagna Romana, si diffuse moltissimo, e permise di recuperare molte torri, oltre che erigerne di nuove. D’altronde la sua leggerezza permetteva una maggiore elevazione della struttura, garantendone un’ampia visibilità sul territorio ed una facile manutenzione, in una società che ancora non conosceva l’uso delle armi da fuoco. Il laterizio da solo venne poco utilizzato e difatti difficilmente se ne riscontrano degli esempi; piuttosto lo si trova alternato agli altri materiali, poiché il suo impiego per strutture d’avvistamento era ritenuto uno spreco e risultava anti-economico, sia in termini di tempo che di rapidità d’esecuzione. Diversi sono gli esempi dell’epoca, presenti nel territorio: citiamo, fra le altre, la torre medievale di Tor Cervara, ora compresa nel casale della Cervelletta, un complesso arroccato su di una rupe tufacea, realizzato, tra il XVI e XVII secolo dalle famiglie Sforza e poi Borghese, inglobando ed ampliando la precedente struttura esistente.
Nel secolo XIII l’enfiteusi aveva ormai definitivamente aperto le porte al feudalesimo nel Lazio e ciò diede l’avvio a forme nepotistiche di gestione del territorio, alla formazione di isole di controllo, di vendette e di soprusi da parte degli enfiteuti stessi, che trasformavano i castelli in vere e proprie rocche ad uso privato contro gli altri baroni del potere. Il conseguente sviluppo dei latifondi portò il territorio ad essere ritenuto più pericoloso, mentre il castello rimase la struttura capace di dare ai contadini la sicurezza ed, al contempo, la possibilità di trovare attrezzature, armenti e fienili. In questo periodo data la situazione, crebbe fortemente, a scapito dell’agricoltura, l’uso di animali a brado e al pascolo.
Tale assetto politico, caratterizzato da tanta incertezza e da continui soprusi, non durò per molto: con l’avvento dell’assolutismo del papato si ebbe la caduta del sistema baronale in favore di un maggiore potere temporale esercitato dalla Chiesa, che, in qualche modo, restaurò la pace e favorì il ripristino delle coltivazioni nei suoi territori. Si arrivò così ad una situazione in qualche modo stabile, che durò fino agli inizi del XVI sec., quando lo spopolamento dell’Agro Romano, a seguito dei saccheggi perpetrati delle milizie imperiali (il cosiddetto Sacco di Roma del 1527), portò all’abbandono dell’agricoltura. Il papa stesso lasciò molte proprietà nella pianura romana, e non se ne curò più attivamene fino a quando con la fine del XVI secolo Sisto V incoraggiò un’opera di recupero e d’urbanizzazione del territorio, dando incentivi per le attività produttive nonché promuovendo interventi sia urbani che extraurbani.
A livello architettonico l’avvento nel XV secolo     p della polvere da sparo mutò non solo la morfologia della Roma rinascimentale all’interno delle mura, dove le strade vennero allargate e rettificate per utilizzare al meglio le potenzialità delle nuove armi, ma fece perdere importanza anche alle fortificazioni presenti nella campagna, dato che incominciavano a risultare inefficaci contro le stesse. Conseguentemente le torri furono abbassate fino al livello delle cortine e munite di bombardiere e cannoniere. Restavano in uso per la difesa dei ponti, delle porte civiche, dei conventi e degli ospedali. Torri isolate furono ancora costruite a difesa del litorale da parte d’incursioni piratesche (Maccarese, Palidoro) fino al XVI secolo; la più famosa tra queste è certamente la michelangiolesca Torre di S. Michele ad Ostia.
Alla fine di questo periodo il processo di concentrazione delle proprietà terriere portò a riscrivere i confini delle tenute più importanti, che si mantennero pressoché costanti per un paio di secoli. Iniziò, dunque, quel processo che toccherà il suo apice con l’Unità d’Italia ed da cui non fu esente nemmeno il territorio laziale. Nonostante ciò in questo periodo si dovette assistere ovunque ad una nuova decadenza dell’Agro romano, che così tornò ad assomigliare alla campagna in stato d’abbandono dopo la caduta dell’Impero. Questa volta, però, non si trattò più delle scorrerie dei barbari o dei pirati saraceni, quanto del diverso sistema di gestione delle terre, per cui le tenute erano amministrate da nuove figure d’enfiteuti, che traevano il proprio reddito attraverso la pratica del subaffitto, soprattutto nei confronti dei pastori transumanti. L’ultimo dei pensieri di questi speculatori era ovviamente quello della manutenzione dei fondi, che venivano coltivati a rotazione unicamente per non impoverire il pascolo: veniva così coltivata la terra secondo un ciclo di quattro anni – un anno di grano e tre di riposo – utilizzando manodopera proveniente dall’Appennino.
Per lo studio di tale periodo ci vengono in aiuto le diverse mappe redatte tra il 1500 e la metà del 1800, sulle quali sono riportate utili indicazioni topografiche, catastali nonché storico-archeologiche. Grazie all’esame di queste e degli atti di proprietà ancora esistenti, siamo venuti a conoscenza della parcellizzazione che il territorio aveva subito a partire dal XIV secolo, proprietà delle diverse famiglie appartenenti all’aristocrazia romana. Particolare menzione merita la cartografia elaborata ad uso dei cacciatori da Eufrosino della Volpaia, redatta nel 1547 e sulla quale sono riportati puntuali riferimenti riguardanti i casali, i fontanili, le sorgenti ed i luoghi di sosta. La mappa del Catasto Alessandrino dell’anno 1660 è invece preziosa soprattutto per una ricerca sugli edifici storici, i siti sui quali sorgevano e lo studio della loro evoluzione; su questa mappa sono, infatti, localizzate diverse costruzioni ancora oggi riscontrabili, perlopiù casali rurali e torri edificate in prossimità o sopra vecchie strutture di epoca romana. Quanto riportato sul catasto Alessandrino viene confermato in epoca recente sia sulle mappe del Catasto Gregoriano, sia su quelle della congregazione del Censo, del 1839. Dallo studio di queste carte si deduce che il territorio mantenne paesisticamente i tratti dell’epoca romana fino alla prima metà del 1800, ovvero fino a quando non iniziò l’estrazione di tufo e pozzolana dalle cave presenti in alcune aree che – con l’intensificarsi dello sfruttamento a seguito dell’espansione della città – ne alterò irrimediabilmente la morfologia.
Verso la seconda metà del XVII sec. il governo pontificio concesse ai proprietari di potersi liberare delle servitù civiche erigendo alte mura, anche se al loro interno i terreni non erano mai coltivati. Con l’inizio del XVIII secolo tornò la fiducia da parte dei grandi agricoltori. Sorsero così nuovi edifici o vennero adattati fabbricati precedenti inserendovi stalle, granai, sili e fienili. Ingente è anche l’opera di bonifica che venne attuata; nonostante ciò l’acuirsi della malaria portò alla decimazione della popolazione. Così i nuovi impianti, i nuovi edifici furono presto abbandonati, mentre restò ancora efficiente solo la pastorizia. La ripresa stentò a decollare: fino alla metà del XIX secolo si susseguirono tre proposte di legge per favorire la coltivazione dei terreni agricoli, ma esse non vennero attuate.
Finito il potere temporale del papato la campagna risentì del risveglio economico che provò a scuotere le antiche strutture. Vennero emanate decreti che favorirono l’agricoltura, furono introdotte nuove macchine agricole e differenti sistemi di coltura che favorirono il recupero dei terreni. Con l’Unità d’Italia iniziò l’opera di bonifica che interessò, oltre all’agro pontino, anche quello romano.
Dai dati censiti nel 1871 la campagna risultava essere abitata da circa 1,5% della popolazione totale di Roma e questo proprio a causa della malaria che mieteva vittime. All’opera di risanamento avrebbero dovuto partecipare anche i proprietari terrieri che però, in molti casi, non adempirono alle nuove leggi dello Stato. Fu comunque proprio grazie all’opera di bonifica che l’attività agricola riprese piede, contribuendo a restituire ai luoghi l’aspetto originario, che s’iniziò a pregiudicare, come già detto, solo con l’apertura delle cave di tufo e pozzolana, che per prime compromisero la morfologia originaria del territorio suburbano.
La torre, perduta ormai nell’Ottocento ogni funzione militare, venne usata solo a scopo decorativo, monumentale, industriale o come osservatorio e faro. Se ne avrà una reminiscenza nelle prime opere razionaliste d’architettura in cui sarà riproposta, con tutta la sua carica metaforica, come strumento di propaganda. In seguito all’espansione edilizia, la mancata cura delle preesistenze architettoniche del territorio suburbano, il diffondersi dei quartieri periferici, nonché il carattere speculativo della Roma contemporanea hanno finito per trascurare questo ingente patrimonio storico causando la perdita irrimediabile di molte testimonianze del passato.

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