RACCONTI DI VIAGGIO
di GaeCos
Siem Reap, sono le venti di lunedì e stiamo partendo con un volo per Phon Phen da dove rientreremo in Italia dopo aver vissuto per tredici giorni e percorso oltre 1700 chilometri, in un Paese, la Cambogia, che ha esaltato agli estremi ogni sensazione ad un gruppo di diciotto persone associati a VA Culture, che hanno abbracciato insieme l’idea di recarsi in un paese di circa diciassette milioni di abitanti lontano dalla nostra Europa, non solo per distanza geografica ma anche per cultura, tradizioni e costumi.
Accompagnati da Dara (che la lingua khmer il nome significa Stella) una sapiente guida locale, ci siamo tuffati in una esperienza unica.
Phon Phen, Katie, Mondulkiri, Ratanakiri, Stung Treng Preah Vihear, Sem Riep Gran Circuito, Banteay Sarei, Angkor: sono queste le località toccate da vicino, poste al centro al nord e ad est di questa affascinante regione asiatica, andando nei luoghi culturali, sacri e di comunità come i villaggi, templi, pagode, scuole e mercati, attraversando infinte distese.
Vivere la Cambogia oggi non è stato per noi solo un viaggio, ma qualcosa di pregnante, un qualcosa che ti si insinua dentro. Una esperienza di vita. È stata una esperienza che ha sollecitato tutti i sensi e ognuno di essi è stato portato al proprio estremo.
Olfatto, udito, tatto, gusto e vista: tutti insieme provocano un tripudio di sensazioni che si ripetono e si differenziano. Si uniscono e si distaccano. Si esaltano e si deprimono.
La vista: in assoluto il senso più sollecitato, visioni a 360 gradi delle città, dei villaggi, delle strade, dei mercati e della gente. Tantissimi, troppi, sono i colori che adornano questo luogo posizionato nel sud est asiatico del mondo.
I colori prevalenti vanno dal verde e marrone dei fiumi e dei torrenti, al rosso vivo della terra; dal grigio e biancastro dei templi e delle case, al bianco dei denti sempre sorridenti dei cambogiani, con i bambini in testa. Ma anche i colori della buonissima frutta, dal duran alla papaya, del mangostano, della sapodilla e della melastella che questa terra ne mette a disposizione in enormi quantitativi. E poi il nero intenso del pregiato e profumatissimo pepe di kampot, coltivato in ampie distese in tutto il Paese.
L’olfatto qui è perennemente sollecitato. I profumi e gli odori sono netti, dolciastri, fumosi e aspri. Le piastre che cuociono cibo, emanano fragranze contrapposte. Così come quelli provenienti dalle macellerie all’aperto, con teste di maiale esposte sulla tavolozza insieme ai polli, alle galline e alle frattaglie. Le anguille tenute in bluastre tinozze d’acqua coperte con una retina, emanano odori particolari.
Su tutti prendono il sopravvento i profumi delle fragranze degli oli essenziali e degli incensi.
L’udito percepisce nettamente il vocio delle anziane donne e delle tante giovani mamme che come in una cantilena sono lì intente a richiamare l’attenzione al loro prodotto. Il mormorio dei bambini si unisce al richiamo di qualche banditore che vuole posizionare con insistenza la sua merce. Ma anche il suono sublime degli strumenti musicali a corda a fiato a percussione. Però nessuno canta.
Impresso rimane il tatto delle mani di un bambino, che le vuole porre sulle mie spalle felice di poter ricompensare un piccolo dono. Ma anche le mani sapienti che coccolano le genti con piacevoli massaggi. E poi le mani, quelle giunte, che simboleggiano l’apertura ad una nuova relazione o a un rinnovato saluto.
Da ultimo il gusto. Un cibo speziato, un cibo cucinato con verdure, carni diverse cotte su piastre e padelle unte. Curry, curcuma, zenzero e radici ne fanno il loro particolare il condimento. E poi il re della tavola, il riso.
Appena si esce fuori dai centri abitati delle città si percepisce, come un cartello che dà il benvenuto, che questa è una terra che ha sofferto per decenni, una terra che ha visto l’oppressore. Ma non c’è nessuna diffidenza verso lo straniero, anzi brilla una disponibilità spontanea, non comune, dei suoi abitanti che ne fa un unicum in termini di accoglienza.
Le palafitte di legno col tetto in lamiera sono abitazioni in cui vivono le famiglie. La loro difesa delle inondazioni, che qui quando piove non c’è da starne allegri.
Sotto di esse le piccolissime galline, due porcellini e tantissimi cani che vivono bonariamente insieme.
Le mani giunte e i capi lievemente inchinati danno il benvenuto in ogni luogo, pubblico e privato. Seguito da un immediato grande sorriso. Sempre si, in intonazioni diverse. Mai una negazione.
I palazzoni bianco sporco addobbati con migliaia di fili neri della luce, che non poggiano sui pali ma sulle abitazioni stesse, ne fanno un lungo serpentone che si snodano per tutte le città e ne fanno un addobbo permanente.
Le bancarelle e le baracche formano l’edilizia suburbana, a pochissimi chilometri dai centri più grandi. Lì “l’energia” ancora non è arrivata. Oggi ci sono i generatori a dare un po’ di luce razionata e le lastre di ghiaccio a mantenere il cibo al fresco.
Nei luoghi di richiamo turistico pullulano diecine e decine di uomini, donne e bambini pronti ad offrirti prodotti locali, cibo cotto, precotto e crudo, artigianato e vestiario tradizionale. Sempre tutto uguale, pochissime le differenze.
Significativa è offerta culturale che la Cambogia mette a disposizione.
Non ha bisogno di menzione particolare il Tempio di Angkor. La sua maestosità si fissa negli occhi delle centinaia di turisti che vi si recano in visita ogni giorno. Visitato all’alba lo si può vedere incastonato in un fuoco rosso del sole che sorge. Solo poche altre cose al mondo possono annoverare l’imponenza di questo monumento che può ambire ad essere considerato una delle meraviglie del mondo.
Ma ad Angkor in termini di imponenza si affianca il Mekong il lungo fiume che attraversa tutta la Cambogia. Maestoso e superbo. Silenzioso e schivo. Con le sue profondità diverse accarezza tutto il territorio incorporando massi che formano isole, alberi che segnano nettamente le rive. È l’autostrada che conduce da un villaggio all’altro. È l’acqua che le donne filtrano e mettono nelle giare.
È la piscina dei bambini che giocano tra loro e ciò nonostante appena ti intravedono sorridono con la bocca e gli occhi e alzano la mano.
Sono bambini che si costruiscono i giochi con la loro fantasia. Un quaderno e una penna sono il regalo.
Sono i bambini che insieme alla famiglia partecipano al macabro rito del sacrificio del bufalo, che a noi infastidisce e addolora, mentre per loro è il banchetto per una festa in ricordo di una giovane ragazza toppo presto dipartita
Ci sono i bambini che vanno a scuola, in turni diversi. Per loro un quaderno, una penna è il regalo più agognato. Molti senza scarpe, chi le ha sono rotte. Anche l’insegnante, un giovane cambogiano, che colpisce per la sua solarità, ha scarpe nero sbiadito con le punte frantumate, ma indossate con dignità.
Decidiamo tutti insieme di “adottare” a distanza questa scuola.
Il racconto della storia di questa nazione fatto dai cambogiani si differenzia a seconda di chi lo narra. È forte e vivo e bruciano ancora le angherie del recente passato. Un genocidio feroce e “cannibale” verso la stessa etnia. La testimonianza dell’orrore si raccoglie bene visitando i luoghi della memoria. È lì che tutti noi abbiamo avuto il piacere di poter stringere la mano si due sopravvissuti Bou Meng e Chum Mey che ogni giorno tornano in questo luogo di dolore per raccontare le torture che hanno sopportato perché oggi il loro obiettivo è che quanto vissuto non possa più accadere.
Nelle parole c’è rabbia pacata e tanta speranza.
C’è voglia di riscatto nei cambogiani. Ci vorrà tempo e denaro. Sono iniziati ad arrivare investimenti significativi dalla Cina. Verso loro vengono riservate aspettative per il futuro dei piccoli cambogiani. Verso di loro e il mondo viene risposta una forte speranza.
A noi hanno affidato il gradito compito di fare vedere con il proprio racconto la “fotografia” del Paese perché sanno che hanno forti potenzialità e ripongono nel turismo l’arma vincente per la scommessa con la vita.
Lo facciamo convintamente volentieri.
04 marzo 2024